I dati sbagliati di Confcommercio e Rizzo sui servizi pubblici per il lavoro
Dopo gli articoli di Dario Di Vico, è con Sergio Rizzo che il Corriere della Sera del 23 novembre 2013 perpetua i suoi attacchi ai servizi pubblici per il lavoro. Con una sincronia rispetto al tema dell’utilizzo e ripartizione dei fondi per la Youth Guarantee davvero svizzera. Una guerra aperta contro il pubblico, a tutto vantaggio delle agenzie per il lavoro private, che puntano molto decisamente agli 1,5 miliardi circa di euro di finanziamento del progetto, utilissimi per risollevare le sorti di bilanci messi in difficoltà dalla crisi occupazionale e mettono in campo ogni risorsa per togliere qualsiasi “concorrente” al possibile utilizzo di queste risorse. E il principale “avversario” sono i centri per l’impiego, dei quali da questa primavera – da quando si è concretizzata la strategia Youth Guarantee – sono costantemente sotto attacco.
Anche a costo di riprendere con oltre un mese e 10 giorni di ritardo uno studio della Confartigianato, come ha puntualmente (si fa per dire) fatto Sergio Rizzo, per tirare la sua stilettata ai servizi, utilizzando solo, esclusivamente ed acriticamente i dati forniti dallo studio stesso, senza nemmeno peritarsi di verificarne l’attendibilità.
Il centro studi della Confartigianato asserisce di aver basato il suo report sui centri per l’impiego utilizzando dati e rapporti del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di Unioncamere ed Eurostat e di Isfol.
Ottimo. Peccato che per le rilevazioni compiute, nessuno, si sottolinea nessuno, di questi enti disponga di un sistema di rilevazione fondato su banche dati accessibili e verificabili, riguardanti l’intermediazione domanda/offerta.
Spieghiamo meglio cosa si intende dire, analizzando le riflessioni contenute nello studio, supinamente riportate da Sergio Rizzo.
Dunque, secondo lo studio di Confartigianato:
- solo il 2,9% delle imprese gestisce le assunzioni mediante selezione effettuata da un Centro per l’Impiego: il canale di ricerca e selezione dei lavoratori più utilizzato è quello informale della segnalazione di conoscenti e fornitori (61,0%), seguito dall’utilizzo di banche dati aziendali (24,6%);
- solo il 3,4% degli occupati italiani si è rivolto ai Centri per l’Impiego per trovare lavoro. Una percentuale che scende al 2,7% per i giovani fino a 29 anni.
- la scarsa fiducia di imprese e lavoratori nei servizi pubblici per l’impiego è testimoniata inoltre dal fatto che, nel 2012, sono state solamente 40.534 le imprese italiane che hanno utilizzato il servizio pubblico per trovare il personale da assumere.
Si tratta di affermazioni molto ricorrenti, che traggono prevalentemente spunto dal rapporto Isfol sull’efficienza dei centri per l’impiego.
Potrebbero in qualche misura considerarsi utili e attendibili se esistesse un sistema per tracciare il flusso tra domanda presentata dalle aziende, offerta del lavoratore, intermediazione svolta dai Cpi, avvio delle rose dei candidati e successiva assunzione. Un sistema, dunque, capace di leggere nelle banche dati dei disoccupati e delle aziende, agganciandosi alla piattaforma delle Comunicazioni Obbligatorie, per analizzare davvero su dati reali i flussi.
Invece, le rilevazioni delle fonti su cui si basa lo studio di Confartigianato sono tutte fondate su interviste “a campione”, perché il sistema di tracciamento immaginato prima semplicemente non esiste.
Qualcuno, dunque, alza il telefono e chiede agli imprenditori se si sono avvalsi o meno dei centri per l’impiego, oppure ferma i lavoratori e chiede loro se hanno trovato lavoro. Domande complesse, che spesso trovano sbrigative risposte, per la semplice ragione, verificabile colloquiando con chiunque, che pochissimi sanno come funziona il sistema e quasi tutti equivocano sul termine di “intermediazione”. Infatti, per solito si ritiene che l’intermediazione sia l’assunzione del disoccupato da parte dell’impresa. Invece, l’intermediazione è e non potrebbe essere diversamente, composta dalla preselezione di una rosa di candidati multipla rispetto al numero di posti disponibili chiesti dall’azienda, in quanto, poi, la selezione e la stipulazione del contratto viene effettuata ovviamente dal datore di lavoro. A meno che questo non dia mandato anche di effettuare direttamente la selezione, cioè l’inviduazione del soggetto da assumere, ipotesi solo di scuola. Imprenditori e lavoratori conoscono poco i meccanismi e, dunque, forniscono risposte “a sentimento”, che poi vengono date per buone.
Nel 2012, nella sola Verona, sono state effettuate oltre 25.000 intermediazioni di disoccupati a beneficio delle aziende. Dal che discende che l’affermazione di Sergio Rizzo, basata sullo studio di Confartigianato “Negli ultimi sette anni hanno trovato occupazione attraverso i centri per l’impiego mediamente non più di 35.183 persone ogni dodici mesi” è semplicemente frutto di rilevazioni che non poggiano su dati concreti.
Pertanto, il conteggio di un costo di oltre 13.000 euro per reperire lavoro a un disoccupato è del tutto privo di basi. Ma, naturalmente, ha finito per essere il “titolone” da prima pagina.
Lo studio della Confartigianato, per altro, glissa sulla circostanza che i centri per l’impiego conducono annualmente decine di migliaia di colloqui per l’inserimento dei disoccupati nelle banche dati, essenziali per accedere alle prestazioni Inps, colloqui di primo orientamento, proposte di lavoro, preselezioni, contatti con le aziende, predisposizione di piani di accompagnamento al lavoro, avvii a formazione, avvii ai tirocini, gestione del lavoro subordinato dei disabili.
Sarebbe bastato dare un’occhiatina alle rilevazioni realizzate dal Sose per la determinazione dei fabbisogni standard dei servizi per il lavoro, e così capire che i dati di Confartigianato sono molto sommari e discutibili.
Vi sono, poi, nell’analisi di Confartigianato dati da considerare completamente sbagliati ed inaccettabili, per quanto il centro studi dell’organizzazione affermi di basarli su rilevazioni Eurostat. Secondo lo studio di Confartigianato, infatti, “nel periodo 2005/2011, il costo delle retribuzioni dei “Servizi per l’impiego” è cresciuto del 24,4%, con una dinamica tripla rispetto ai redditi da lavoro dipendente nella Pubblica Amministrazione che, nello stesso arco di tempo, sono saliti dell’8,3%”.
Non sappiamo quale tabella o computo abbia utilizzato Confartigianato. Sappiamo per certo che l’affermazione riportata sopra è del tutto falsa ed erronea.
La spesa del personale dei servizi per l’impiego in Italia non può essere cresciuta di 3 volte rispetto alla crescita dei redditi da lavoro dipendente nella pubblica amministrazione, come indicato nel surreale rilievo dello studio proposto, per una ragione estremamente esemplice: i centri per l’impiego operano presso le province; ai dipendenti si applicano i contratti collettivi nazionali di lavoro pubblici e, dunque, le identiche dinamiche salariali valevoli per tutta la pubblica amministrazione. Il costo delle retribuzioni dei centri per l’impiego, pertanto, nel periodo 2005-2011 non è affatto aumentato del 24,4%, cifra folle e impossibile, anche considerando il blocco dei contratti, fermi al 2009.
Basterebbe semplicemente questa sottolineatura per qualificare la rilevanza scientifica dello studio di Confartigianato, ma, soprattutto, per rammaricarsi della circostanza che esso possa essere acriticamente rilanciato, come ha fatto il Corriere della sera.
E dimostrano: “la spesa italiana per servizi per il lavoro degli ultimi anni è in media intorno ai 600 milioni di euro ed è diminuita dal 2008 proprio in concomitanza con l’aumento della disoccupazione giovanile (anche in ragione della destinazione delle risorse FSE agli ammortizzatori in deroga). La spesa media 2005- 2011 della Germania per servizi per il lavoro è intorno agli otto miliardi di euro, quella della Francia è intorno ai 5 miliardi della Spagna supera il miliardo di euro. Rispetto al PIL la spesa italiana per servizi per il lavoro è intorno allo 0,03 per cento, contro lo 0,3 per cento della Francia, della Germania e del Regno Unito. I paesi europei che all’inizio della crisi hanno fortemente investito sui servizi per l’impiego sono quelli che hanno ottenuto i migliori risultati e che hanno potuto persino decidere dal 2010 di diminuire la spesa per politiche del lavoro (come la Germania e l’Olanda).
Il personale addetto alla presa in carico del disoccupato in Italia è uno ogni 200 disoccupati: questo dato è peggiorato in questi mesi per via del pensionamento di molti operatori e comprende anche il personale amministrativo in back office. Se però consideriamo quanti operatori abbiamo per ogni disoccupato o inoccupato disposto a lavorare il dato è di uno ogni 594 ! Nel Regno Unito abbiamo un operatore ogni 43 disoccupati disponibili al lavoro, in Francia uno ogni 59, in Germania uno ogni 27.
Importante il dato sulla spesa assoluta, che evidenzia la clamorosa controtendenza italiana: al 2010, in piena crisi ed emergenza giovani, l’Italia ha speso circa 26 miliardi di euro per politiche del lavoro, dei quali 20 miliardi per politiche passive ( trattamenti di disoccupazione e prepensionamenti), 5 per politiche attive ( soprattutto incentivi e formazione) e solo 500 milioni per servizi. Nel periodo 2005-2011, con la crisi, diminuisce in proporzione e persino in valori assoluti la quota di risorse destinata a politiche attive e servizi” (da Work Magazine, 20.6.2013“I dati clamorosi della spesa dei servizi per il lavoro”).
Vi è, invece, un dato indiscutibilmente vero, nello studio di Confartigianato: gli imprenditori si avvalgono poco dei servizi pubblici per il lavoro. Gli artigiani quasi per nulla. E sembra ne facciano un vanto ed un vessillo, nell’affermare che la gran parte dell’intermediazione passa per i “lavora con noi” nei portali delle singole aziende o per i canali delle conoscenze personali.
Non ci si rende conto che sono proprio questi gli elementi che rendono il mercato del lavoro inefficiente ed opaco. L’esistenza di una serie di canali chiusi, riservati a poche persone capaci di esplorarli ed utilizzarli, rende il sistema dell’incontro domanda-offerta in Italia poco trasparente, anti democratico, incapace di far conoscere appieno le opportunità e di selezionare al meglio.
Se quella piattaforma immaginata sopra funzionasse o la si volesse far funzionare, basterebbe indurre le aziende, con un sistema di incentivi e disincentivi, a manifestare le proprie esigenze di lavoro prioritariamente in quel portale, consentendo poi a tutti gli operatori dell’intermediazione, pubblici o privati, di proporre entro un lasso di tempo molto breve, rose di candidati. In questo modo sarebbe possibile davvero tracciare i flussi e verificare efficienze ed inefficienze.
L’articolo di Rizzo e lo studio di Confartigianato concludono invitando il Governo a non investire in servizi ritenuti improduttivi. Strano; per una volta che potremmo imitare la Germania, con una disoccupazione pari a zero quasi, nelle sue politiche virtuose, cioè investire 8 miliardi nelle politiche attive per il lavoro, con 100.000 quasi dipendenti negli uffici corrispondenti agli italiani centri per l’impiego, per i quali l’Italia investe meno di 500 milioni e nei quali lavorano 7.700 dipendenti (dato Upi), l’invito è non a potenziare servizi che sarebbero essenziali per lo sviluppo del Paese, ma a deprimerli ulteriormente.
La Confartigianato insiste sulla carenza di flessibilità nel sistema pubblico, che non consente di incentivare gli operatori dei centri per l’impiego con incentivi economici per le assunzioni svolte. Ragionamento anche in questo caso non corretto. I servizi pubblici per il lavoro dispongono già di un sistema di incentivazione per il risultato: è dato dall’applicazione delle disposizioni normative e contrattuali sul risultato, funziona da anni, da molto prima della riforma Brunetta (negli enti locali il sistema della performance, per chi lo applica correttamente, vige sostanzialmente dal 1995) e, dunque, non è necessaria alcuna incentivazione.
L’insistenza su questo argomento deriva dall’idea di incentivare, pagare con fondi pubblici, le agenzie private, le quali puntano a far sì che la Youth Guarantee sia realizzata con un sistema di voucher, poi da estendere a tutti i disoccupati. Essi, in sostanza, disporrebbero di una somma di denaro pubblico, da spendere come un buono, presso i soggetti che assicurano i servizi. Pertanto, si finirebbe per creare, in Italia, un sistema che sarebbe assai appetibile per i privati: eliminare di fatto, anche se non di diritto, il divieto di chiedere un pagamento ai disoccupati per il servizio di ricerca del lavoro, mascherando detto pagamento dietro il “voucher”, con l’ulteriore finzione di far apparire il tutto come un sistema “privato”, mentre il tutto sarebbe comunque finanziato da risorse pubbliche. Con l’ulteriore aggravante di rendere stabile un sistema di ricerca organizzato per tessere, conventicole e canali “privilegiati”.