Che il passaggio della riforma delle Province dalla teoria degli ordinamenti alla pratica degli spostamenti creasse qualche tensione è un fatto ovvio. Ma le inedite occupazioni delle sedi istituzionali da parte dei dipendenti, spesso ben accolte da presidenti e consiglieri, le proteste virali via web e le tante forme di mobilitazione che stanno crescendo nel Paese dicono che la temperatura è salita più del previsto. La ragione non è difficile da individuare. La «più grande operazione di mobilità nella storia della Pubblica amministrazione», secondo la definizione governativa, per funzionare deve essere un concerto, invece si sta trasformando in gazzarra. In altre parole, Regioni e Comuni, ma anche le altre pubbliche amministrazioni coinvolte, dopo l'entusiasmo mostrato per l'alleggerimento delle Province avrebbero dovuto avere la voglia e i mezzi per accogliere funzioni e personale, patrimonio e debiti, ma così non è stato. Gli Osservatori regionali, nei quali Governatori e sindaci dovrebbero decidere la nuova geografia delle competenze da attuare dal prossimo gennaio, spesso non sono nemmeno partiti, oppure come in Lombardia stanno decidendo di lasciare tutto com'era perché il Pirellone non ha intenzione di sobbarcarsi costi aggiuntivi.
In questo quadro i tagli ai fondi, decisi dal Governo per togliere ossigeno alle resistenze e spingere in campo giocatori che recalcitrano, corrono assai più veloci rispetto all'altra gamba della riforma, quella delle competenze, con il risultato di alleggerire i bilanci prima delle funzioni, e le entrate prima delle spese per servizi e personale.
La versione finale della legge di stabilità dà tempo fino al 31 dicembre 2016 per verificare che la mobilità abbia successo, con una garanzia che però va riempita di contenuti. A Crotone, per esempio, i dipendenti hanno visto sbloccarsi solo ieri lo stipendio di ottobre, secondo l'Anci il 75% delle Province sta sforando il Patto di stabilità e spesso la situazione è vicina al dissesto. La riforma delle Province, da passepartout per una politica in cerca di consensi, rischia così di trasformarsi in una guerra fra poveri. Su un fronte ci sono i dipendenti, “colpevoli” di essere stati assunti in un ente oggi considerato «inutile», e i contrattisti, che senza una proroga in extremis gonfierebbero dal 1° gennaio gli elenchi dei disoccupati. E sull'altro ci sono i tanti, giovani e meno giovani, che hanno affrontato con successo un concorso pubblico e oggi temono di vedere le loro prospettive, già ridotte da tagli di spesa e vincoli al turn over, occupate dai lavoratori in uscita dalle Province, con vincitori ed ex provinciali a giocare una partita da cui gli idonei rischiano di essere esclusi del tutto. Su questo scenario, meglio evitare una “guerra” parallela, combattuta però dai politici di Comuni e Regioni a suon di richieste incrociate di risorse. Non sarebbe un bel vedere.
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Mentre sono in elaborazione e discussione, sia a livello Centrale che nel Parlamento Regionale, diverse proposte sul riassetto organizzativo dell'ente intermedio, noi lavoratori precari siamo allarmati e sempre più preoccupati dalla scarsa attenzione rivolta al problema dei dipendenti con contratti precari, che da anni assicurano l'erogazione di servizi strutturali nel settore lavoro.
Province, se il riordino diventa una guerra tra poveri
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