Nell’articolo di Francesco Giubileo e Francesco Pastore, pubblicato su Lavoce.info “Per
trovare lavoro servono centri per l’impiego 4.0”, si ipotizzano alcune modifiche per
rendere maggiormente efficace l’attività dei centri per l’impiego.
Si afferma, a giusta ragione, che la gran parte delle attività dei centri per l’impiego consiste
nella “registrazione delle dichiarazioni di disponibilità al lavoro e le attività protocollari per
quanto riguarda disabilità e certificazione per tirocini extra-curriculari”, mentre “il vero
compito dei centri per l’impiego dovrebbe essere in primo luogo quello di realizzare politiche
volte all’occupabilità dei disoccupati”.
Se la diagnosi appare corretta, non altrettanto condivisibili sono l’analisi della causa di questa
situazione e le proposte.
In merito, ad esempio, alla prevalenza delle funzioni amministrative dei centri per
l’impiego rispetto alla realizzazione delle politiche per l’occupazione, gli autori osservano
che “in altri paesi queste attività sono svolte quasi esclusivamente on-line o affidate a uffici
unici del lavoro”. Dunque, si tratta di funzioni che, comunque, debbono essere gestite. È bene
sottolinearlo, perché dietro qualsiasi intervento riguardante i centri per l’impiego, rimane
sempre sottinteso, ma molto più spesso è apertamente enunciato, il messaggio che essi non
servono a nulla, se non a dare un lavoro a coloro che sono ivi impiegati. No. Le funzioni di
registrazione dei disoccupati sono fondamentali per tracciare i loro movimenti, a loro volta
indispensabili per le politiche “passive”, cioè l’assegnazione di trattamenti come la Naspi.
Infatti, gli autori affermano che in Italia le attività amministrative potrebbero essere svolte da
una “super Inps”. Ora, poiché l’Inps è ampiamente sotto organico e sovraccaricata di funzioni,
le attività amministrative gestite, oggi, dai centri per l’impiego, potrebbero passare all’Inps
(ipotesi a lungo, per altro, esaminata in passato) solo a condizione che transitino anche
personale e strutture dei centri per l’impiego.
Ma, il vero tema è, ovviamente, quello dell’efficiente rilancio delle politiche “attive”, cioè
delle azioni attraverso le quali i servizi per il lavoro cercano (ad auspicabilmente
trovano) lavoro ai disoccupati.
Gli autori propongono 4 possibili soluzioni. Ma, partiamo dalla chiosa dell’articolo, ove viene
ricordato, al volo, quasi che fosse un dettaglio secondario, come restino “da affrontare due
temi spinosi: il numero e le competenze dell’attuale organico dei centri per l’impiego”.
Su questo aspetto non si può condividere l’impostazione. Il tema del numero e delle
competenze dei centri per l’impiego non può essere una considerazione accessoria
nell’ambito di temi più grandi, ma, al contrario, la premessa necessaria. Prima, infatti, di immaginare qualsiasi modalità di incremento dell’efficacia delle politiche attive occorre
chiedersi se esistano le risorse per poterle realizzare. In assenza di ciò, è evidente che
qualsiasi attività rischi di essere inefficace, ma non perché la macchina non funzioni, bensì
perché il motore è senza benzina e inoltre siano stati staccati volante, ruote, sportelli, sedili ed
accessori.
Ora, è noto il divario abissale che esiste, sia per risorse, sia per numero dei dipendenti,
tra i servizi che curano le politiche attive per il lavoro in Italia ed il resto dei Paesi
competitori in Europa. Il divario della spesa è addirittura imbarazzante, come si evince
dall’estrazione dei dati rilevati da Eurostat, riportata qui sotto:
La Germania, nel 2015, ha speso in politiche attive oltre 11 miliardi, contro i poco più di
752 milioni dell’Italia. Cosa significa “spesa di politica attiva”? Si tratta dei costi
complessivi delle iniziative necessarie per attivare i disoccupati e trovare loro un lavoro:
dunque, colloqui per scrivere il curriculum, fare il bilancio delle competenze, comprendere le
attitudini, effettuare corsi per completare le lacune, istruirlo e seguirlo nella ricerca delle
domande di lavoro, assisterlo per la preparazione ai colloqui, proporlo alle aziende che
chiedano profili compatibili o incrociarlo con domande di lavoro adeguate, aiutarlo nel primo
inserimento. Ma non basta: le “politiche” spesso sono accompagnate da “doti”, risorse
finanziarie che possono andare al lavoratore stesso come sostegno al reddito mentre svolge le
funzioni intensive di ricerca, oppure al datore di lavoro come incentivo-bonus nel caso di
assunzioni a tempo indeterminato o anche a termine per durate, però, significative; oppure,
come bonus e premi di risultato per i soggetti che realizzino l’insieme delle attività previsto
dalla “politica attiva” e conducano il lavoratore a trovare un impiego.
L’Assegno di ricollocazione, molto citato, è esattamente questo: un insieme di azioni di
ricerca attiva ed intensiva, che prevede un premio al soggetto (pubblico o privato) chiamato
a svolgerle, nel caso di assunzione del lavoratore; al lavoratore coinvolto non va nulla, perché l’iniziativa è rivolta a percettori di Naspi, dunque già beneficiari di un intervento di
protezione economica.
Quindi, come è facile intuire, le “politiche attive” costano. E costano molto. Anche perché,
come avviene in Germania con i vituperati mini-job, possono essere ulteriormente arricchite
da misure “sociali”: l’assegnazione di un’abitazione o di assegni (anche consistenti) per i figli
o per le utenze e similari.
In Italia è evidente il sotto finanziamento delle politiche attive. In sostanza, anche se i
centri per l’impiego fossero popolati da un maggior numero di dipendenti, meglio qualificati,
stante la situazione fotografata dall’Eurostat, comunque le politiche attive da offrire ai
disoccupati resterebbero ben poche.
Per altro, accade che oltre ad essere irrisori i finanziamenti, se confrontati con quelli di altri
Paesi e della Germania in particolare, enorme è anche il gap del numero degli addetti. La
pietra di paragone è sempre la Germania. Gli autori ricordano che in Italia operano nei centri
per l’impiego 8.000 dipendenti (in realtà, per effetto della riforma Delrio non sono più di
6.000, tra pensionamenti anticipati e trasferimenti vari), mentre in Germania 80.000.
Di fronte a divari organizzativi e finanziari di questa natura, non può in alcun modo
convincere l’affermazione degli Autori, secondo la quale “l’innovazione tecnologica
permette oggi di sviluppare i progetti anche con solo 8mila dipendenti e non 80mila come
in Germania”. Giustissimo puntare sulla tecnologia e sulle competenze dei dipendenti. Ma è
fin troppo semplice osservare che in Germania sicuramente non sono indietro
nell’innovazione tecnologica e sanno fare di conto benissimo: se hanno un similare parco di
dipendenti, 10 volte e più quello italiano, c’è una ragione.
Andiamo, quindi, alle proposte. La prima consiste nel realizzare in ciascuna regione
un’agenzia per il lavoro, prevedendo che quella nazionale, l’Anpal, supplisca laddove in
qualche regione la specifica agenzia non sia in grado di svolgere alcuni servizi. L’idea appare
corretta e condivisibile, ma sconta un problema: l’Anpal stessa è dotata di poco meno di 400
dipendenti. Difficile che possa organizzarsi in maniera diffusa ed efficiente nei territori.
La seconda proposta è realizzare nei centri per l’impiego “attività di incontro fra
domanda e offerte di lavoro, formazione professionale per i disoccupati e servizi di autoimpiego
e auto-imprenditorialità”, secondo il modello del Multilab di Rozzano, una sorta
di incubatore per le imprese. Ottima proposta: si aspettano, quindi, gli investimenti in sedi,
macchinari, docenti, strumenti e quanto necessario per attivare i corsi formativi ed i laboratori
in ciascuno dei 550 circa centri per l’impiego. Vedremmo che la spesa per i servizi per il
lavoro in Italia schizzerebbe molto in alto, rispetto all’attuale livello. Lo Stato lo vuole? E,
soprattutto, può permetterselo, senza rivedere la spesa in riduzione in altri settori? Il vero
tema è questo.
Terza proposta: “in tutti i centri per l’impiego dovrebbe essere presente una seria attività
di orientamento professionale, anche attraverso l’utilizzo di modelli informatici predittivi
per attività di targeting, come avviene in Svizzera, e l’assistenza da parte di psicologi del
lavoro per i soggetti più difficili da collocare in modo da sviluppare un buon bilancio di
competenza”. Ottima anche questa. Ma, se tra gli 8.000 (presunti) dipendenti dei centri per
l’impiego non vi sono sufficienti orientatori e mancano del tutto gli psicologi del lavoro,
siamo proprio certi che “la tecnologia” evocata dagli Autori possa supplire alla presenza di una figura umana che orienti e svolga le funzioni di assistenza di uno psicologo? Non sarebbe,
invece, necessario arricchire i centri per l’impiego di queste figure? E, per farlo, non
occorrerebbe assumerli? E, per assumerli, non occorrerebbe investire nella spesa per i servizi
per il lavoro? Lo Stato lo vuole? E, soprattutto, può permetterselo, senza rivedere la spesa in
riduzione in altri settori? Il vero tema è questo.
Ultima proposta: “a livello regionale, lo sviluppo di un serio progetto di marketing
territoriale, attraverso pochi ma preparati agenti commerciali, che sviluppano e
organizzano “fiere lavoro” nel proprio territorio e si affidano a un gestionale (Crm) volto
alla reportistica delle attività fatte e lo sviluppo di timesheet delle attività da svolgere”.
Imprescindibili gli agenti commerciali, utili anche i contatti diretti con le imprese,
mediante fiere del lavoro o altro. Ma, anche in questo caso, si pensa che possa bastare “la
tecnologia” a produrre dei cyborg che svolgano la funzione di agenti, oppure, forse, è
necessario assumerli. Ma, per assumerli, non occorrerebbe investire nella spesa per i servizi
per il lavoro? Lo Stato lo vuole? E, soprattutto, può permetterselo, senza rivedere la spesa in
riduzione in altri settori? Il vero tema è questo.
Per il rilancio delle politiche attive occorre uscire dagli equivoci. Ogni idea operativa di
riorganizzazione, comprese le 4 viste sopra, sono utilissime e buone. Ma, se non si investe,
prima, in risorse finanziarie e nel rafforzamento del personale dei centri per l’impiego, si
continuerà solo a produrre ottimi spunti per convegni e scritti scientifici o a produrre
“sperimentazioni” come l’Assegno di ricollocazione, il cui flop non è da addebitare nel modo
più assoluto ai centri per l’impiego: sono stati gli stessi lavoratori estratti dall’Anpal, a
decretare la poca utilità dello strumento. Dei 30.000 estratti, nemmeno il 10 per cento ha
deciso di avvalersene.
Luigi Oliveri